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news e articoliLa Locazione ai Tempi del Covid-19

1 Luglio 2020
Locazione Covid-19

STUDIO ESTRATTO DA:  “RIVISTA TELEMATICA PLURIS CEDAM”

Emergenza Coronavirus

30/06/2020

Locazione commerciale ai tempi del Covid-19: sì alla rinegoziazione del canone
In considerazione della peculiarità del momento storico ed economico, della specifica situazione commerciale del conduttore e della limitata ripresa delle attività nazionali, può essere ridotto il canone di locazione commerciale di un immobile sulla base di quanto previsto dagli artt. 91 e 103, comma 6 d.l. n. 18/2020, conv. nella legge n. 27/2020.
di Antonio Scalera – Consigliere Corte d’Appello

Il Custode giudiziale di un immobile destinato all’esercizio di attività commerciale ha chiesto al Giudice dell’Esecuzione di essere autorizzato alla rinegoziazione del relativo canone di locazione.
In considerazione dell’emergenza epidemiologica e della correlata momentanea chiusura della propria attività commerciale, la conduttrice ha proposto la temporanea riduzione del corrispettivo previsto nel contratto precario nella misura del 60% per i canoni di marzo e aprile 2020 e nella misura del 50% per i canoni da maggio a luglio 2020.
Il Giudice dell’Esecuzione ha ritenuto meritevole di accoglimento la proposta formulata, in considerazione della peculiarità del momento storico ed economico, della specifica situazione commerciale del conduttore e della limitata ripresa delle attività nazionali, e, a tal fine, ha rinvenuto un utile ausilio ermeneutico negli artt. art. 91 e 103, comma 6, d.l. n. 18/2020, conv. nella legge n. 27/2020.

Il provvedimento in esame costituisce utile occasione per svolgere alcune riflessioni sul tema della rinegoziazione dei contratti in essere all’epoca della pandemia. La normativa emergenziale non contiene una disciplina ad hoc. Tuttavia, l’art. 91 del Decreto c.d. “Cura Italia” (D.L. 17 marzo 2020, n. 18), introducendo il nuovo comma 6 bis nell’art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, ha previsto che “il rispetto delle misure di contenimento [dell’epidemia] è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

È stato affermato (V. Pandolfini, Epidemia covid-19 e contratti di locazione commerciale: quali rimedi per i conduttori?, in Contratti, 2020, 3, 308) che, nella fattispecie che ci occupa, la norma non varrebbe ad escludere in radice la responsabilità del conduttore-debitore (per l’omesso pagamento dei canoni), bensì ne limiterebbe la responsabilità per il ritardo nell’adempimento, qualora il rispetto delle misure di contenimento sia stata la causa esclusiva dell’inadempimento; in questo senso, la norma potrebbe venire incontro al debitore alleviando le conseguenze del suo inadempimento soprattutto con riferimento ai giudizi per convalida di sfratto, obbligando appunto il giudice a tenere conto, anche d’ufficio ed anche in caso di mancata comparizione del convenuto (art. 663 c.p.c.), della situazione emergenziale eccezionale e del rispetto delle misure di contenimento da parte del conduttore.

Se, dunque, la normativa emergenziale non fornisce all’interprete criteri utili relativamente allo specifica tema oggetto di analisi, pare, allora, opportuno volgere lo sguardo alla disciplina generale in materia di locazioni commerciali e di obbligazioni e contratti.
L’art. 27, ultimo comma, della l. 27 luglio 1978, n. 392 attribuisce al conduttore la facoltà di svincolarsi dal contratto a prescindere dagli accordi assunti con il locatore, allorquando ricorrano “gravi motivi”, con preavviso di almeno sei mesi.

Secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza (Cass. 24 settembre 2019, n. 23639; Cass. 13 giugno 2017, n. 14623; Cass. 27 marzo 2014, n. 7217; Cass. 28 febbraio 2019, n. 5802; Cass. 4 agosto 2017, n. 19493; Cass. 13 dicembre 2011, n. 26711), i gravi motivi che legittimano il conduttore a liberarsi in anticipo dal vincolo contrattuale, devono essere determinati da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da renderne oltremodo gravosa la prosecuzione di quest’ultimo; tale gravosità va intesa in senso oggettivo e deve consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie, idoneo ad incidere significativamente sull’andamento dell’azienda globalmente considerata.

È stato così affermato che, con riguardo all’andamento dell’attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica, sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile all’epoca della conclusione del contratto, che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo.

Ora, l’emergenza in atto può certamente considerarsi come un “grave motivo” tale da legittimare il recesso del conduttore ex art. 27, L. n. 392/1978, trattandosi di un evento non prevedibile e indipendente dalla volontà del conduttore, di vasta estensione territoriale e comportante una forte restrizione dell’attività imprenditoriale, tale da causare forti ripercussioni economiche negative sugli esercenti.

Ci si può chiedere se Covid-19 sia circostanza idonea a giustificare la risoluzione del contratto di locazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi degli artt. 1256 ss. e 1463 ss. cc.
Ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’impossibilità sopravvenuta definitiva – generata da un impedimento irreversibile ovvero in relazione al quale si ignora se possa mai venir meno – determina l’estinzione dell’obbligazione, mentre l’impossibilità temporanea – che deriva da una causa prevedibilmente transitoria – produce l’effetto di sospendere il rapporto, esonerando il debitore da responsabilità per il ritardo nell’adempimento, ma non è causa di estinzione dell’obbligazione, sempre che non superi i limiti dell’interesse del creditore al conseguimento della prestazione.

A ben vedere, i divieti disposti dai D.P.C.M. e dai provvedimenti regionali non rendono temporaneamente impossibile né la prestazione principale del locatore (ovvero la messa a disposizione di locali idonei all’uso che ne è consentito ai sensi del contratto), né la prestazione principale del conduttore (ovvero il pagamento del canone).
Tuttavia, il divieto imposto ai conduttori degli immobili di svolgervi l’attività commerciale – alla cui realizzazione avevano adibito gli spazi locati – viene ad incidere direttamente sull’utilizzabilità della prestazione eseguita dal locatore, riverberandosi inevitabilmente sul profilo funzionale del contratto.

Deve, in proposito, richiamarsi un indirizzo giurisprudenziale, affermatosi a partire da Cass. 24 luglio 2007, n. 16315, che aveva applicato l’art. 1463 c.c. al caso in cui i contraenti non avevano potuto fruire di un viaggio con finalità turistica, per una causa di forza maggiore, non prevedibile e non ascrivibile alla condotta dei contraenti, e successivamente confermato da una serie di pronunce di legittimità e di merito(40), che ha ampliato l’ambito applicativo della sopravvenuta impossibilità di adempiere alla prestazione, individuando nella c.d. sopravvenuta impossibilità di “utilizzazione” della prestazione una vera e propria ipotesi di mancata attuazione del sinallagma contrattuale, inidonea a garantire la realizzazione degli interessi che le parti intendevano soddisfare per mezzo del contratto stipulato, sebbene a fronte di un’assenza di una reale impossibilità giuridica ovvero fisica della prestazione.

Dunque, secondo tale orientamento, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione ricorre non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia, comunque, non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto.
Anche nel caso in esame, a ben vedere, nonostante che, a rigore, la prestazione del debitore (locatore) sia oggettivamente (giuridicamente e naturalisticamente) possibile, l’evento esterno pandemico e le conseguenti misure contenitive hanno reso tale prestazione priva della capacità di assolvere alla propria “funzione concreta”, ovvero la messa a disposizione dei locali per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale o professionale.
Essendo, dunque, i beni locati inutilizzabili da parte del conduttore rispetto all’uso al quale erano stati destinati, ne consegue l’applicabilità del rimedio risolutivo ex art. 1463 c.c.

In caso di impossibilità parziale non imputabile al debitore l’art. 1258 c.c. stabilisce espressamente che la prestazione residua è dovuta, né può il creditore rifiutarsi di riceverla.
Secondo la prevalente dottrina, per accertare se la sopravvenuta impossibilità della prestazione sia totale o parziale, occorre verificare se cioè l’impedimento verificatosi produca o meno l’oggettiva inidoneità della parte residua della prestazione a soddisfare le esigenze funzionali che tendeva a realizzare la prestazione originariamente dovuta; ricorre quindi una impossibilità parziale quando, pur rimanendo eseguibile solo una parte, la stessa possa comunque considerarsi oggettivamente idonea alla realizzazione delle esigenze funzionali della prestazione originariamente dovuta.

Verificatasi una causa di impossibilità parziale, nei contratti a prestazioni corrispettive non è sufficiente che il debitore esegua la prestazione per la parte che è rimasta possibile, liberandosi così dall’obbligazione, ma risulta altresì necessaria l’applicazione dei rimedi di cui all’art. 1464 c.c., volti a controbilanciare la riduzione della prestazione, ristabilendo l’equilibrio nel rapporto contrattuale (57).
Il creditore ha, quindi, il diritto di ricevere il parziale adempimento, ottenendo una corrispondente riduzione della controprestazione dovuta ovvero, laddove ritenga di non avere un apprezzabile interesse all’adempimento parziale, recedere dal contratto.

È possibile, quindi, sostenere che, nel caso in esame, poiché la pandemia ed i relativi provvedimenti contenitivi hanno inciso sulla prestazione di facere del locatore vanificando in buona misura gli interessi del conduttore, ma mantenendo comunque una utilità residua, seppure molto ridotta, per quest’ultimo, si produca una sorta di risoluzione parziale del rapporto, consentendo così al conduttore di chiedere, ex art. 1464 c.c., una riduzione del canone proporzionata alla parte della controprestazione non utilizzata.

D’altra parte, l’art. 1584, comma 1, c.c., prevede che, ove il bene divenga parzialmente inutilizzabile a causa dell’impossibilità di eseguire le riparazioni cui è tenuto il locatore e tale inutilizzabilità si protragga per oltre un sesto della durata della locazione (e, in ogni caso, per più di 20 giorni), il conduttore ha diritto ad una riduzione del corrispettivo, proporzionale all’entità del mancato godimento.

Non appare quindi peregrina un’applicazione analogica di tale norma – che individua quale rimedio principale a fronte dell’indisponibilità parziale del bene la riduzione del corrispettivo – alla fattispecie di temporanea impossibilità parziale di utilizzo del bene locato indotta dalle misure di contenimento della pandemia.
Il diritto del conduttore alla riduzione del corrispettivo potrebbe essere tutelabile non solo in via di azione, ma anche di eccezione; di fronte alla richiesta di pagamento da parte del locatore, il conduttore potrebbe infatti dedurre l’esistenza della ridotta prestazione del locatore (per causa a quest’ultimo non imputabile) e chiedere – oltre al rigetto della domanda – la riduzione del canone.

Analogamente, di fronte all’iniziativa del locatore, il conduttore potrebbe avvalersi dell’exceptio inadimpleti contractus, di cui all’art. 1460 c.c., posto che, come è stato osservato, tale eccezione può essere attivata anche di fronte ad inadempimenti incolpevoli, derivanti da impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore (come appunto nel caso in esame).

Un altro istituto che viene in rilievo nella fattispecie in esame è quello della eccessiva onerosità della prestazione.
È, infatti, evidente come l’impossibilità del locatario di svolgere l’attività all’interno dell’immobile condotto in locazione abbia compromesso gli equilibri sottesi al contratto di locazione, rendendo l’obbligazione relativa al pagamento del canone assai più gravosa rispetto al momento iniziale.

La risoluzione per eccessiva onerosità, ex art. 1467 c.c., è un rimedio giudiziale per i contratti a esecuzione continuata, applicabile qualora si verifichino avvenimenti straordinari ed imprevedibili, tali da alterare economicamente la prestazione di una delle parti in modo grave – cioè economicamente insostenibile – al di fuori dell’alea normale del contratto (art. 1467, comma 2, c.c.).

In presenza di tali presupposti, il debitore può liberarsi dal vincolo tramite la risoluzione del contratto, che l’altra parte può evitare offrendo di modificare le condizioni contrattuali secondo equità (c.d. reductio ad equitatem).
Pertanto, qualora il conduttore invochi l’eccessiva onerosità sopravvenuta, gli effetti saranno quelli della risoluzione del contratto – con conseguente non ripetibilità dei canoni di locazione medio tempore corrisposti -, a meno che il locatore non intenda evitare l’effetto caducatorio, offrendosi di ricondurre ad equità la misura del canone.

Secondo altra impostazione (A. Caranci, Locazioni: la tutela d’urgenza del conduttore commerciale in era Covid 19 ) nel frangente emergenziale appare difficile contestare che il contratto di locazione commerciale non abbia potuto realizzare la propria “causa”.
Può, quindi, assumersi che limitatamente al periodo di inutilizzabilità coatta del bene locato si sia realizzata una situazione che contrasta con quanto dispone l’art. 1346 c.c. in relazione all’oggetto del contratto, alla “possibilità” del suo conseguimento ed alla stessa sua liceità, vigente il divieto di apertura dei locali commerciali.
Tanto il difetto della causa, quanto l’impossibilità (o la illiceità) dell’oggetto sembrano condurre ad una diagnosi di nullità del contratto – in riferimento al periodo in esame – stante quanto disposto dal secondo comma dell’art. 1418 c.c.

Nel caso dell’emergenza COVID 19 si tratterebbe di un’anomalia funzionale, se si condividono le premesse, da intendersi quale “nullità parziale”, non già sotto un profilo statico / qualitativo (come usualmente accade di considerare, quando il vizio accede, nella fase genetica, a parte dell’accordo o a sue singole clausole), bensì nel suo aspetto dinamico / temporale, in relazione alla contingente inidoneità del contratto a realizzare la causa concreta, ovvero il suo oggetto, nell’arco di tempo in cui sono intervenute le disposizioni governative di chiusura obbligata.
In altri termini, a fronte di un contratto naturalmente destinato a regolare nel tempo, per tutta l’estensione della sua naturale durata, gli interessi delle parti, si vuole qui sostenere che si è verificata, limitatamente al periodo emergenziale, una nullità totale sotto il profilo quantitativo, ma transitoria, e perciò parziale, con riferimento alla sua durata ed alla sua funzione.

In sostanza, per il periodo in questione è il contratto che “non ha funzionato”.
Si tratterebbe, dunque, di un “segmento temporale e temporaneo di invalidità” i cui effetti si esplicano ed esauriscono in pendenza delle condizioni che l’hanno determinata.

La nullità parziale non si comunica all’intero contratto, giusta la previsione dell’art. 1419, comma 1 c.c., se non qualora risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che ne è colpita, altrimenti vigendo, di regola, il principio della conservazione del contratto.

Non è mancato chi (L. Massa, Oltre la Crisi. Lockdown e locazioni commerciali, in Giustizia Civile.com) ha ritenuto meritevole di maggiore considerazione la tesi in base alla quale il rischio del mancato pieno godimento del bene sia, nella fattispecie, integralmente a carico del conduttore, sul presupposto che le diminuite possibilità di godimento della cosa locata dovute a provvedimenti limitanti la specifica attività ivi svolta debbano rientrare nell’alveo del rischio d’impresa gravante sul soggetto esercente l’iniziativa economica. Un rischio a carico del soggetto che ha liberamente selezionato il tipo di attività da esercitare nel locale commerciale nell’ambito del suo potere di governare l’iniziativa economica e ha discrezionalmente stabilito le modalità di concreto svolgimento dell’attività prescelta (si pensi, ad esempio, al maggior danno subìto dai locali notturni a causa delle disposizioni regionali che sovente hanno temporaneamente fissato un orario anticipato di chiusura serale). Tale impostazione si fonda sulla considerazione che nell’assetto del codice civile e della legislazione speciale il locatore risponde delle limitazioni sopravvenute del diritto d’uso del bene dipendenti da fatti che riguardano direttamente la cosa locata e/o il diritto di proprietà su di essa (perimento del bene per caso fortuito; vizi originari e sopravvenuti del bene; molestie di diritto provenienti da terzi i quali avanzino diritti sulla cosa), ma non delle limitazioni sopravvenute dell’attività esercitata all’interno del bene locato (ad esempio, il mancato rilascio di concessioni e licenze amministrative; le molestie di fatto provenienti da terzi; le modifiche del bene necessitate da nuove disposizioni normative, etc.).

La situazione emergenziale indotta da Covid-19 ha indotto taluno (F. Macario, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “coronavirus”, in Giustizia Civile.com) a pensare ad una ridefinizione della disciplina generale del contratto, che, in relazione alle sopravvenienze, sposti con decisione il baricentro della soluzione delle controversie dall’opzione estintiva del vincolo (con la risoluzione del contratto, così come risulta oggi dalla disciplina del codice civile, con riferimento tanto all’impossibilità sopravvenuta, quanto all’eccessiva onerosità) al rimedio ‘correttivo’, ossia finalizzato all’adeguamento del regolamento contrattuale, mediante l’accordo delle parti.
In questo quadro, assume, allora, centrale rilevanza la configurazione di un obbligo di rinegoziazione carico delle parti, segnatamente del locatore.

È nota la tendenza, da parte di recente autorevole dottrina, a configurare un vero e proprio obbligo legale di rinegoziare i contratti, a durata non istantanea, per fronteggiare gli effetti prodotti dalle circostanze sopravvenute sull’originario regolamento contrattuale, onde evitare lo scioglimento del rapporto, valorizzando il dovere di solidarietà nei rapporti tra privati, e facendo leva sul principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c. e quello di equità integrativa, di cui all’art. 1374 c.c. (F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996)

Secondo tale orientamento, ricorrendo un mutamento delle condizioni originarie del rapporto contrattuale, per effetto di accadimenti successivi alla stipulazione del contratto, che modifichino in misura significativa l’equilibrio iniziale delle obbligazioni delle parti, opererebbe un dovere di cooperazione tra le parti – quale specificazione del principio generale di buona fede (esecutiva) – il quale imporrebbe, inter alia, di fare aderire il regolamento contrattuale, a suo tempo predisposto, alla reale situazione di fatto nel frattempo evolutasi in un certo modo: in una parola, a rendere l’attuazione del regolamento contrattuale congrua rispetto agli interessi dei contraenti.
Tale dovere scaturirebbe, dunque, da un’applicazione del principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c. – che regola l’esecuzione dei contratti nell’ottica di un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti contraenti – dato che la clausola generale di buona fede tende ormai ad essere intesa non solo come una fonte di integrazione del contratto, ma anche e soprattutto quale limite generale dell’autonomia dei privati, ovvero quale strumento di controllo dell’equilibrio e della congruità delle prestazioni contrattuali, in attuazione dei doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. (74).

Una rinegoziazione dell’importo del canone – nel senso di una sua temporanea riduzione – e/o delle modalità di corresponsione del canone stesso, verrebbe dunque a riequilibrare lo scambio, richiedendo al locatore un sacrificio ampiamente inferiore a quello cui il conduttore sarebbe soggetto ove fosse tenuto a corrispondere l’intero canone, a fronte di un’utilità significativamente ridotta, seppur temporaneamente. In un’ottica di distribuzione del rischio, infatti, qualora il conduttore fosse costretto a corrispondere interamente il canone originariamente pattuito pur non potendo esercitare l’attività nell’immobile locato, il locatore verrebbe a trovarsi in una posizione di eccessivo vantaggio, continuando a ricavare un lucro che verosimilmente non otterrebbe se l’immobile venisse locato nel contesto dell’attuale soluzione emergenziale, atteso il valore ridotto del bene in tale periodo.

Nel caso in cui il locatore rifiuti di iniziare le trattative con il conduttore per giungere ad un accordo modificativo di quello originario, oppure allorché la trattativa, pur iniziata, sia condotta in modo malizioso, cioè in modo scorretto, violando così l’obbligo di buona fede nell’esecuzione del negoziato, il conduttore avrebbe la possibilità di autoridursi il canone di locazione in via di autotutela, ai sensi dell’art. 1460 c.c.
In alternativa si aprirebbe la possibilità di sollecitare l’intervento dell’autorità giudiziaria, esercitando una tutela risarcitoria, che, pertanto, permetterebbe al conduttore un ristoro a fronte del corrispettivo (già versato), previo tuttavia probabile scioglimento del rapporto contrattuale.

Mette conto segnalare che l’associazione Civilisti Italiani ha, di recente, inteso sensibilizzare il Governo a considerare l’opportunità di adottare con i provvedimenti del caso le disposizioni che seguono:
«1. Gli imprenditori minori di cui all’art. 2, lett. d) del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, i lavoratori autonomi di cui all’art. 1 della l. 22 maggio 2017, n. 81 e i professionisti iscritti ad albi che per effetto delle misure di contenimento adottate ai sensi del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13 e del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 hanno subito una interruzione dei normali flussi di cassa possono, relativamente alle obbligazioni contrattuali preesistenti verso imprenditori non minori in scadenza tra la data di entrata in vigore delle predette misure e il termine di sessanta giorni successivi alla loro cessazione, chiedere al creditore di rinegoziarne l’ammontare e il termine di adempimento.

2. La richiesta di rinegoziazione deve contenere l’attestazione documentata dell’interruzione dei normali flussi di cassa, una indicazione motivata e documentata delle ragioni della rinegoziazione ed una definita proposta di ripianamento totale o parziale. Se la richiesta di rinegoziazione non contiene l’indicazione motivata delle ragioni della rinegoziazione ed una definita proposta di ripianamento ovvero non risulta giustificata da una interruzione dei normali flussi di cassa causata dalla sospensione legale dell’attività esercitata, sono dovuti al creditore dalla data di scadenza anche gli interessi moratori previsti dall’art. 5 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231.

3. Il creditore deve esprimersi sulla proposta nel termine di trenta giorni dalla ricezione e qualora non accetti la proposta, deve motivare le ragioni che ostano all’accettazione e formulare una controproposta. Il debitore può entro dieci giorni dalla comunicazione della risposta riformulare la propria proposta in relazione alle motivate ragioni oppostegli. In caso di ingiustificato rifiuto di condizioni eque, la parte che dimostri di averne derivato danno ha diritto al risarcimento nella misura dell’art. 1223 c.c.

4. Dal momento in cui riceve la richiesta di rinegoziazione e fino a sessanta giorni dopo la cessazione delle misure di contenimento applicabili al debitore, il creditore non può proporre in giudizio azioni a tutela del suo credito o domande di risoluzione del contratto. Le azioni già proposte sono 12 improcedibili fino all’esaurimento dello stesso termine. Gli effetti della mora sono sospesi con decorrenza dalla data di adozione delle misure di contenimento di cui al comma 1 e il creditore non è legittimato a sollevare le eccezioni di cui agli art. 1460 e 1461 c.c.

5. Se decorsi sessanta giorni dalla revoca delle misure di contenimento di cui al comma 1, il creditore conviene in giudizio i soggetti di cui al comma 1 con azioni di condanna all’adempimento delle obbligazioni contrattuali, di condanna al risarcimento dei danni cagionati dall’inadempimento, di risoluzione del contratto o di riduzione della propria controprestazione, l’adempimento integrale da parte del convenuto dei debiti scaduti e il pagamento delle spese del giudizio liquidate dal giudice entro la data della prima udienza ha effetto pienamente liberatorio.
6. L’imprenditore minore o il lavoratore autonomo o il professionista convenuto in giudizio per l’inadempimento o il ritardo delle obbligazioni previste nel 1° comma può unilateralmente attivare il procedimento di negoziazione assistita regolato dalla legge 10 novembre 2014, n. 162. L’esperimento della negoziazione assistita costituisce condizione di procedibilità della domanda».

Riferimenti normativi
Art. 91 D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito nella L. 24 aprile 2020, n. 27
Art. 103, comma 6, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito nella L. 24 aprile 2020, n. 27
Tribunale Bari, sez. II, 9 giugno 2020

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